La spianata nera di Bhopal

Quella che mi accingo a descrivere è una storia che, sia per la gravità delle conseguenze sanitarie che ha determinato, sia per le ricadute sul tessuto economico e sociale subite dal territorio, può essere assimilata ad un (grave) incidente ad un impianto nucleare.
È il drammatico resoconto di quanto accadde a Bhopal, una raffinata e decadente città dell’India centrale, nel 1984, attorno alla mezzanotte di domenica 2 dicembre.
Esattamente trent’anni fa.
Ripercorriamo, preliminarmente, la storia dell’impianto della Union Carbide Corporation (UCC), allora colosso della chimica mondiale che ora non esiste più: la quota principale di quella società, infatti, risulta oggi sotto il controllo di Dow Chemical.
L’autorizzazione alla costruzione dello stabilimento sulla spianata nera di Bhopal data 4 maggio 1969 e fu emessa dal Ministero dell’Agricoltura indiano. Con essa fu concessa all’UCC statunitense la costruzione di un plant per la produzione di Sevin, un carbammato, potente ed innovativo insetticida sostitutivo del DDT.
Venne autorizzata dal Governo indiano la produzione di cinquemila tonnellate all’anno di questo pesticida a fronte di una richiesta di mercato massima, stimata dall’allora Direttore della divisione dei prodotti agricoli di UCC, Eduardo Munoz, di circa duemila tonnellate all’anno. Quest’ultimo, peraltro, voce isolata nel management di UCC.
Vedremo come codesta prima scelta, 5000 t/a in luogo di 2000 t/a, letta con il senno del poi, pose su solide basi il successivo sviluppo della tragedia. La limitata modulabilità della produzione di un impianto di questo tipo determinò, in presenza di ridotte richieste di mercato, fasi di produzione massiva a fasi di sospensione delle attività dello stabilimento. Introdusse un funzionamento a singhiozzo in un impianto pensato per un ciclo continuo e costante nel tempo.
Come già indicato, lo stabilimento chimico venne costruito in un’area di 60 ettari chiamata spianata nera, uno slum urbano privo di corrente elettrica, acqua sanitaria, fognature e di tutto ciò che rende “abitabile” un qualsiasi quartiere cittadino occidentale.
Tale area risultava posta in prossimità della stazione ferroviaria e della città vecchia di Bhopal.

Figura 1 – Lo stabilimento della Union Carbide Corporation a Bhopal

Inizialmente la costruzione dell’impianto chimico fu percepita, sia dalla politica (nazionale e locale) che dalla popolazione, come una rilevante possibilità di sviluppo del tessuto sociale ed economico della città. Significava, infatti, un impiego sicuro per migliaia di persone in un territorio che possedeva certamente un glorioso passato alle spalle ma che aveva di fronte a sé un futuro incerto e cupo. Una scelta peraltro percepita priva di particolari rischi, stante la dichiarazione del responsabile del progetto di UCC: “uno stabilimento innocuo come una fabbrica di cioccolata”.
In realtà, pur essendo il Sevin granulato, prodotto nello stabilimento di Bhopal, una sostanza fondamentalmente sicura, anche e soprattutto se confrontata con il DDT utilizzato in precedenza come agente pesticida, così non era il processo chimico che portava alla sua sintesi.
La produzione attivata presso il sito di Bhopal era articolata e comprendeva sia la ricezione di intermedi chimici prodotti in altri stabilimenti del gruppo, quali il monossido di carbonio (CO) e la Monometilammina (MMA), sia la sintesi finale “in situ” del Sevin, con produzione degli intermedi necessari (Fosgene, Isocianato di Metile (MIC), MCC e alfa-Naftolo).
Il cuore della chimica del processo di produzione dell’Isocianato di Metile era il seguente (cfr. Figura 2):

Figura 2 – Chimica per l’ottenimento del MIC

La reazione finale tra MIC e alfa-Naftolo sintetizzava, quindi, il Sevin granulare, un prodotto che avrebbe dovuto contribuire alla crescita dell’industria agricola indiana (la cosiddetta “rivoluzione verde”).
Lo stabilimento produceva dunque un tipo di “cioccolata” particolare, soprattutto in relazione alla straordinaria pericolosità dei componenti con i quali si perveniva al prodotto finale:

Tutti potenzialmente letali, sia secondo la classificazione a diamante presente in NFPA 704 (USA) sia rispetto alla nostra normativa UE.
Concentriamoci ora, per un momento, sulle caratteristiche chimico/fisico/biologiche dell’Isocianato di Metile, il MIC, la sostanza cioè che diede origine al disastro.
Il MIC è un liquido trasparente con un punto di ebollizione di 39°C. Possiede una bassa solubilità in acqua ed è relativamente stabile allo stato anidro. È altamente reattivo e, in particolare, può reagire violentemente con l’acqua. La reazione può essere tuttavia inibita dal fosgene. L’esotermia, sempre presente con acqua, si attenua in presenza di temperature di stoccaggio inferiori ai 20°C. Questa diviene tuttavia incontrollabile (runway reaction) se ha luogo a temperature elevate o in miscela con acidi e basi (comprese le ammine). Il MIC può altresì polimerizzare a contatto con il ferro, stagno e rame.
L’Isocianato di Metile è infiammabile possedendo un Flash Point (FP) pari a -18 °C ed un limite inferiore di esplosione (LEL) uguale a circa il 6% in aria.
Risulta biologicamente attivo e altamente tossico; questo fatto è reso evidente dal bassissimo valore del TLV-TWA (=0,02 ppm), molto inferiore a quello della maggior parte delle sostanze utilizzate nella chimica industriale. Pur possedendo una soglia olfattiva molto bassa (odora di cavolo bollito), il TLV-TWA risulta inferiore a tale livello di concentrazione. Essendo la sostanza un potente irritante esso causa lesioni alla pelle, danni irreversibili agli occhi ed edema polmonare se inspirato. Il MIC viene altresì metabolizzato dall’organismo come cianuro. Quest’ultimo, sopprimendo la citocromo ossidasi necessaria per l’ossigenazione delle cellule, induce una letale asfissia cellulare.
Il sistema di stoccaggio del MIC presente nel sito dell’Union Carbide di Bhopal consisteva in tre serbatoi, realizzati in acciaio INOX AISI 304, ciascuno della capacità di circa 57 mc. Due di essi erano destinati al normale ciclo di produzione (cod. nn. 610 e 611) mentre il terzo (cod. n. 619) venne destinato all’emergenza.
Tutti i serbatoi erano dotati di un sistema di refrigerazione termostatato a temperature inferiori a 5°C e ciascun contenimento risultava permanentemente flussato ad azoto. In particolare il gas inerte veniva richiamato in ciascun serbatoio ogni qualvolta si creava la depressione di progetto all’interno di esso. Ogni serbatoio, dotato di pressostato, era altresì protetto da una valvola di sicurezza posta a valle di un disco di rottura; tale sistema garantiva il mantenimento dell’efficienza della valvola di sicurezza dato che quest’ultima non risultava mai a contatto con il prodotto chimico. Tutti i collettori di sfiato erano convogliati in uno scrubber a soda caustica e, successivamente, in una torcia finale per l’abbattimento degli effluenti gassosi residui.

Figura 3 – P&ID del serbatoio n. 610 destinato a contenere il MIC

Pur essendo presenti le indicate misure di protezione poste a presidio dei serbatoi di MIC, esisteva un importante gap tecnologico e di sicurezza tra il sito UCC costruito a Bhopal e l’impianto “gemello” installato ad Institute nel West Virginia (USA).

Tabella 1 – Differenze nell’ingegneria tra gli impianti “gemelli” della Union Carbide in USA e India

Dal confronto emergono differenze sostanziali nell’ingegneria. Particolare attenzione meritano, tra le altre:

  • l’assenza di un controllo di processo computerizzato;
  • la costruzione delle tubazioni di processo in semplice acciaio al carbonio in luogo di acciaio AISI 304;
  • l’assenza di ridondanza nelle torce di stabilimento;
  • lo svolgimento delle operazioni di aggiunta di alfa-Naftolo manuale invece che attraverso tubazioni di processo dedicate;
  • assenza di un piano di emergenza rivolto alla popolazione esterna.

Lo stabilimento entrò in piena produttività il 4 maggio 1980, ad undici anni esatti dalla prima autorizzazione governativa.
Purtroppo la sua produzione non raggiungerà mai i livelli previsti in fase di progetto (=5250 t/a). Il picco massimo venne ottenuto nel 1981, con una produzione di Sevin pari a 2700 t. Nel 1983, a causa di pessime condizioni meteorologiche, che limitarono i raccolti, la quantità sintetizzata scese a 1660 t, troppo poco per mantenere in pieno esercizio uno stabilimento come questo.
Nel 1984, infine, dagli impianti usciranno solo 2000 tonnellate di Sevin che rappresentava, comunque, la maggior parte della produzione di pesticidi a base MIC della Union Carbide Corporation.

Tabella 2 – Produzione annua UCC di pesticidi (1984)

All’inizio dell’avventura UCC a Bhopal il personale risultava adeguatamente formato anche attraverso lunghe trasferte di training presso lo stabilimento di Institute, in USA. Purtroppo tale livello di competenza diminuì in breve tempo a seguito dei tagli conseguenti alla limitata redditività della produzione.
Ci fu una drastica riduzione dei titoli di studio in ingresso nonché della durata del training dei dipendenti (da 18 mesi nel 1975 ad un mese nel 1984). Peraltro nel 1984 il personale dello stabilimento, già ampiamente ridotto in termini numerici, risultava, per la maggior parte, trasferito da altri siti della Union Carbide (cfr. Figura 4).

Figura 4 – Evoluzione delle condizioni organizzative e di istruzione del personale Union Carbide di Bhopal

Questo è quindi il quadro di insieme dell’azienda prima del catastrofico evento del dicembre 1984: un impianto ad elevatissimo rischio nel quale la multinazionale non solo non investiva più in termini di risorse tecniche e di ingegneria, ma che subisce un evidente decurtamento del capitale umano destinato alla gestione.
Meno persone, meno motivate e meno competenti.
Questo, tuttavia, non è di per sé sufficiente a dar conto dell’immane tragedia cui abbiamo assistito. Furono una serie di successive decisioni del management locale che posero le basi dell’incidente che poi si sviluppò.

La prima: presso lo stabilimento di Bhopal erano stoccate 63 tonnellate di isocianato di metile, una sostanza, come abbiamo visto, estremamente reattiva rispetto a comuni liquidi (acqua) e solidi (ferro, stagno, rame). I chimici europei, anche all’epoca dei fatti, furono chiari e netti rispetto alla scelta statunitense di stoccare queste enormi quantità: il MIC, se fosse stato necessario per una sintesi, si sarebbe dovuto produrre nel momento in cui serviva. Lo si realizzava nella minima quantità necessaria e si sarebbe dovuto consumare immediatamente dopo; così operando si sarebbe reso intrinsecamente sicuro il processo.

La seconda: a dicembre del 1983, per motivi manutentivi, vennero permanentemente collegate la linea di sfiato (RVVH) con la linea di processo (PVH) attraverso una “jumper line” (cfr. Figura 3). Tale scelta, non prevista nel progetto originale elaborato dagli ingegneri statunitensi della Union Carbide, introdusse nell’impianto un cortocircuito impiantistico determinante per lo sviluppo dello scenario incidentale.

La terza: nel giugno del 1984, per (irragionevoli) motivi di risparmio energetico (non più di 20 USD al giorno), il sistema di raffreddamento dei serbatoi del MIC venne disattivato e le 30 t di fluido refrigerante interamente drenate. L’isocianato di metile, a temperature inferiori ai 5°C, evidenzia una limitata reattività, se confrontata con quella presente a temperature superiori. L’errore tecnico fu quello di assimilare il MIC, molto reattivo ed in grado di interagire con banali impurità metalliche presenti nel serbatoio, ad una sostanza chimicamente stabile ed inerte (“Ficcati nella zucca una volta per tutte che non ci possono essere fughe in una fabbrica che ha interrotto la produzione. È la prima cosa che bisogna sapere in questo mestiere”. cfr. Lapierre D. Moro J. (2012), p. 268).

La quarta: ad ottobre lo scrubber di abbattimento a soda caustica venne disattivato, sempre in base all’assunzione che non fosse necessario, vista l’inattività dell’impianto.

La quinta: sempre ad ottobre la torcia di protezione venne posta fuori servizio a causa della presenta di tubazioni corrose. Queste vennero rimosse per poi essere successivamente sostituite. Tale operazione non venne mai eseguita.

La sesta: parte della strumentazione posta a presidio dei serbatoi era fuori uso. Non era possibile, quindi, il monitoraggio delle condizioni di stoccaggio dell’Isocianato di Metile: mancano letture affidabili di temperatura, pressione e livello, in particolare nel serbatoio n. 610. Quest’ultimo, ricordiamo, conteneva 42 delle 63 tonnellate complessivamente stoccate nel sito produttivo.

Non è un caso che il rapporto di audit interno, datato 11 settembre 1984, e redatto da ingegneri UCC statunitensi, riportasse chiaramente che: “The potential hazard leads the team to conclude that a real potential for serious incident exists” (=I rischi potenziali ci portano a concludere che esiste la reale possibilità di un serio incidente).
Giunti a questo punto l’impianto divenne tecnicamente fragile. Un qualsiasi errore operativo poteva pregiudicare la sicurezza del sito, tali e tanti erano ormai i guasti tecnici e procedurali potenziali e covanti.
L’incidente, utilizzando la terminologia di Perrow, divenne “normale” in un impianto così gestito. I presupposti c’erano tutti:

  • Complessità interattiva
  • Forte accoppiamento tra le variabili in gioco

L’innesco non tardò ad arrivare e l’attivazione dell’evento incidentale ebbe luogo alle 21.15 del 2 dicembre 1984 (cfr. Tabella 3). Dato che filtri connessi alla linea RVVH (cfr. Figura 2) risultavano intasati, presumibilmente a causa di depositi di fosgene, si decise di dar luogo ad un lavaggio con acqua. Si chiuse la valvola n. 16, si aprirono le valvole nn. 18-21 e le nn. 22-25 e venne collegata una manichetta con acqua in pressione nella tubazione relativa alla valvola n. 17.

Tabella 3 – Cronologia dell’incidente

L’ostruzione era rilevante e per liberare l’impianto si aumentò la pressione dell’acqua di lavaggio. Tale incremento probabilmente forzò l’apertura della valvola n. 16. In quest’ultima linea non era stata, peraltro, inserita alcuna flangia cieca di isolamento. Gli operatori, nelle prime fasi dell’incidente, non si accorsero di nulla. L’acqua continuò a fluire all’interno del serbatoio n. 610 (non refrigerato) per almeno due ore e tre quarti.
A quel punto, verso mezzanotte, l’energia accumulata divenne incontenibile. La reazione esotermica tra Isocianato di Metile ed acqua causò un potente surriscaldamento del fluido fino a portarlo ad una temperatura di 250°C e ad una sovrappressione di 14 bar (il serbatoio era dimensionato per resistere a pressioni di progetto inferiori a 4 bar).
Il MIC prima fuoriesce dall’impianto percorrendo in senso inverso il percorso compiuto dall’acqua poi, quando la pressione diviene superiore a quella di rottura dei sistemi di protezione, fluirà principalmente attraverso il disco di rottura e la relativa valvola di sicurezza.

Per completezza di informazione, va detto che alcuni report tecnici, realizzati da esperti di chiara fama (per es. Trevor Kletz), confutano la teoria dell’incidente sin qui descritta ritenendola troppo semplicistica. Essi considerano, infatti, che la lunghezza della linea RVVH e l’altezza differenziale tra la zona sottoposta a pulizia ed il serbatoio n. 610 non potessero consentire un massivo afflusso d’acqua al serbatoio di MIC. Secondo tali specialisti, inoltre, la spiegazione precedentemente descritta presupporrebbe che tutta una serie di valvole normalmente chiuse fossero state difettose, con perdite significative di tenuta, o, addirittura, risultassero tutte mantenute aperte. Peraltro, alcune di queste, testate nel corso dell’anno successivo all’incidente, evidenziarono tenute tecnicamente più che adeguate.
Alla luce di queste considerazioni, è quindi possibile che lo scenario considerato (a maggioranza) credibile, non spieghi tuttavia con completezza la grande quantità di acqua in pressione in ingresso nel serbatoio n. 610.
La Union Carbide Corporation, in questo senso, ritenne possibile una seconda ipotesi: quella del sabotaggio e/o altro errore tecnico. In altri termini, l’acqua potrebbe essere stata introdotta nel n. 610 direttamente al livello del manometro collocato a monte del disco di rottura posto a protezione del serbatoio. Potrebbe, per esempio, essere stata collegata una presa d’acqua nella connessione per l’alimentazione d’azoto (volontariamente oppure per un errore tecnico).
In ogni caso, indipendentemente dall’errore conseguente all’introduzione d’acqua, tutti i rapporti tecnici concordano nel sottolineare la diffusa negligenza organizzativa connessa alle condizioni operative altamente degradate all’interno dello stabilimento (tubazioni difettose o bypassate, criticità tecniche nell’ingegneria della costruzione impiantistica, mancanza di personale, formazione insufficiente, ecc.) nonché una grave impreparazione nell’affrontare l’incidente che ha poi avuto luogo.

Riprendiamo ora la descrizione dell’evento: giunti a questo punto dell’incidente, non esiste alcun ostacolo all’emissione delle 42 tonnellate di vapore denso di MIC: lo scrubber di abbattimento è disattivato e manca la tubazione di collegamento alla torcia di stabilimento (peraltro spenta).
La spianata nera, la città vecchia e la stazione ferroviaria vengono invase da una nube velenosa e silenziosa, con odori e densità differenti (cfr. Figura 5):

  • l’isocianato di metile che puzza di cavolo bollito;
  • la monometilammina che pare ammoniaca;
  • il fosgene che odora di paglia umida.

Ognuno di questi vapori possiede densità e, quindi, mobilità passiva differente sul terreno e ciascuna area di Bhopal è invasa, dall’uno o dall’altro vapore letale, in funzione dell’intensità e della direzione locale del vento (cfr. Figura 5).

Figura 5 – Zone contaminate di Bhopal

Si compie la strage.
Nell’immediatezza dell’incidente, le statistiche ufficiali indicarono 2.000 morti accertatiAmnesty International denunciò, invece, che nei primi tre giorni, a Bhopal, persero la vita almeno 7.000 persone a cui devono essere aggiunte altre 15.000 vittime registrate tra il 1985 e il 2003, anno nel quale il Governo indiano ammise ufficialmente che il bilancio della tragedia aveva superato i 20.000 decessi.
Altresì, si stimano in 120.000 le persone che, esposte ai vapori nella sera tra il 2 e 3 dicembre 1984, subiscono tuttora le conseguenze di malattie croniche invalidanti e medicalmente non trattabili.
Ventimila morti e centoventimila malati cronici: questo è l’enorme costo sociale dell’avventura del Sevin in India.
Numeri che non necessitano di alcun ulteriore commento.

Figura 6 – Particolare di un pannello di comando in sala di controllo: “Safety is everybody’s business” (“La sicurezza è affare di tutti”)

“(…) I vapori che raggiungono i quartieri vicini alla fabbrica avvelenano solo chi ne resta contaminato, ma l’odore di cavolo lesso, di erba appena tagliata e di ammoniaca si spande in tutta la zona in pochi secondi. Mukkadam ha appena il tempo di vedere quella nebbia leggera, che già ne sente gli effetti. Capisce che la morte sta per piombare su di loro. Urla: “Bachao! Bachao! Scappate!”. Colti dal panico, gli invitati alle nozze fuggono, correndo in ogni direzione.
Per Bablubai è già troppo tardi. Il lattaio dell’Orya basti non regalerà più latte ai bambini rachitici. Subito dopo la morte del toro Nandi e delle vacche, ha lasciato la festa e si è precipitato nella stalla, richiamato dai muggiti delle bufale. Sdraiate come al solito a ruminare, le diciassette bestie sono state investite in pieno da una piccola folata di vapore strisciante. Molte sono già morte. Bablubai corre fino alla capanna per salvare il figlio neonato e la moglie Boda.
“La lampada a olio si è spenta” mormora la giovane donna in lacrime.
Bablubai tenta di chinarsi a prendere il bambino, ma uno sbuffo di vapori arrivato proprio in quel punto gli paralizza all’istante la respirazione. Il lattaio, fulminato da una sincope, si accascia senza vita sul corpo del suo bambino (…)”

(tratto da: Lapierre D. Moro J. (2012), Mezzanotte e cinque a Bhopal, Mondadori, Milano, pp.281-282)

Bibliografia

  • ARIA Report n. 722, Release of toxic gases in a pesticide plant, French Ministry for Sustainable Development – DGPR/SRT/BARPI
  • Bowonder B., An analysis of the Bhopal accident, in: “Project Appraisal”, Vol. 2, n. 3/1987, pp. 157-168
  • Chouhan T.R., The unfolding of Bhopal disaster, in: “Journal of Loss Prevention in the Process Industries”, n. 18/2005, pp. 205-208
  • Dash M.C. Dash S.P. (2009), Fundamentals of Ecology (Third Edition), McGraw-Hill, New York, USA (Chapter 8.12)
  • Kletz T. (2001), Learning from Accidents, Butterworth-Heinemann, UK (Chapter 10)
  • Lapierre D. Moro J. (2012), Mezzanotte e cinque a Bhopal, Mondadori, Milano
  • Mannan S. (2012), Lees’ Loss Prevention in the Process Industries: Hazard Identification, Assessment and Control (4th Edition), Butterworth-Heinemann, UK (Appendix 5)
  • Perrow C. (1999), Normal Accidents, Princeton University Press, USA
  • Sturloni G. (2006), Le mele di Chernobil sono buone, Sironi, Milano (Capitolo 6)

(Post pubblicato originariamente su Postilla.it il 24/11/2014)

© Marzio Marigo

Commento (1)

  • Rispondi livia di tola - 5 Dicembre 2022

    Leggere questo resoconto mi ha fatto ricordare la superficialità e la mancanza di sensibilità del professore di patologia vegetale, che disse (a proposito del grave disastro!):
    “Tanto sarebbero morti uguale!!”
    Difficile esprimere cosa pensai in quel momento!

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