Dunkerque e la gestione dell’emergenza

A seguito dell’incontenibile invasione tedesca del territorio francese che ebbe luogo nel 1940, buona parte delle truppe britanniche ripiegò sulle spiagge di Dunkerque in attesa di essere rimpatriata. Una vera e propria fuga di massa dell’esercito inglese dalla Francia. Sulla descrizione di questo fatto storico è imperniato il recente film(one) di Christopher Nolan intitolato, appunto, “Dunkirk” (scritto all’inglese).

Un film, alla maniera di Nolan, unico e coinvolgente che, tutto d’un fiato, fa rivivere l’ansia, l’attesa e fin quasi il profumo della salsedine di quei terribili giorni.

Da vedere certamente.

Ho cominciato con questo preambolo poiché la narrazione del film di Nolan, ad un certo punto, si sofferma sul salvataggio di una scialuppa, partita dalla costa, da parte di una nave da guerra. Dopo essere saliti a bordo i militari in fuga vengono ospitati in un grande compartimento predisposto per la loro accoglienza.

Uno dei militari messi in salvo, una volta rifocillato, rivolgendosi al commilitone, e osservando l’enorme affollamento del locale, dice: “Cerca una via di fuga rapida. Se dovessimo affondare”.

Entrambi, poi, si avvicineranno al portellone più vicino e riusciranno a salvare la propria vita dal successivo affondamento della nave militare che li aveva accolti.

Il film ci dice che, in emergenza, parte avvantaggiato chi ha già in mente una strategia per il proprio salvataggio.

E questo vale in tutte le situazioni.

…la preparazione, non dimentichiamolo…

Per esempio, quanti tra di noi, una volta accomodati al proprio posto su un volo di linea, conoscono la via di fuga più breve? Non discuto di quanti ascoltano, a volte passivamente, i preziosi cinque minuti informativi fatti dal personale di bordo, ma di quelli che effettivamente verificano dov’è di preciso la propria uscita d’emergenza[1].

Amanda Ripley, nel suo “Vivi per miracolo” (brutta trasposizione del bel titolo originale “The Unthinkable”. Con il testo, invece, il lavoro di traduzione è stato ottimo), asserisce che è proprio questa una delle informazioni fondamentali quando ”l’impensabile” si concretizza (qui trovate una piccola recensione del testo scritta qualche anno fa).

Peraltro non è per nulla scontato che, in caso di emergenza, l’unico aspetto da gestire sia l’evacuazione rapida ed ordinata dei luoghi. Ci saranno infatti anche persone che, a seconda dei casi e delle situazioni specifiche:

  • non dovranno abbandonare il luogo a rischio (es. gestori di processi a rischio di incidente rilevante, chirurghi in sala operatoria, ecc.)
  • non potranno abbandonare il luogo a rischio (es. persone con limitata mobilità e/o limitazioni della vista, udito presenti in luoghi “difficili”[2], ecc.)
  • dovranno addirittura entrare nei luoghi a rischio (es. i professionisti dell’emergenza, VVF su tutti)

In emergenza, inoltre, il vincolo di irreversibilità è pervasivo, a differenza della maggioranza delle normali condizioni operative. Ogni scelta fatta annulla, infatti, tutte le altre opzioni potenziali[3].

Durante un’emergenza, dunque, NON SI TORNA INDIETRO. Per questo è importante la preventiva pianificazione, proceduralizzazione e addestramento all’evento.

In situazioni emergenziali e ad alto stress anche la sala di comando di una centrale nucleare (il massimo tecnologico concepibile in termini di controllo e di gestione), può diventare terreno fertile per errori umani ed operativi. Il rapporto WASH 1400[4] dà conto di questo fornendo stime probabilistiche per specifiche tipologie di compito. Per esempio:

  • entro i 60 secondi dall’inizio di un’emergenza LOCA (Loss Of Coolant Accident, incidente con perdita di liquido raffreddamento) la probabilità d’errore è totale (100%);
  • dopo i primi 5 minuti dall’inizio di un’emergenza LOCA la probabilità di errore si abbassa, di poco (90%). In altri termini, in questo intervallo di tempo, nove persone su dieci sbaglieranno ad operare/scegliere;
  • dopo mezz’ora dall’inizio dell’emergenza la probabilità di errore arriva al 10%. Solo una persona su 10 continuerà a sbagliare (oppure, altra interpretazione, su dieci scelte compiute da un operatore, nove saranno corrette ed una no);
  • infine, dopo parecchie ore dall’inizio dell’emergenza l’errore diviene dell’1% che rappresenta la tipica probabilità di errore umano per compiti generici (range 0,03-0,01).

Ovviamente stiamo discutendo dei professionisti addestrati presenti in una sala di comando di un impianto sofisticato e complesso. Professionisti che tuttavia, durante le prime fasi di un’emergenza, non ragionano più lucidamente. Ed è proprio in queste circostanze che si manifesta la straordinaria importanza di possedere una familiarizzazione e un addestramento all’emergenza.

Immaginiamo cosa potrebbe accadere, durante un’emergenza (anche molto meno importante di quella considerata dal WASH 1400), che coinvolga persone del tutto prive di preparazione e/o addestramento.

Un esempio emblematico delle dinamiche instaurantesi durante un’emergenza quando al panico si associano un rapido sviluppo di fumi/gas tossici e ostacoli al deflusso è bene rappresentato dall’incidente aereo di Manchester del 1985 descritto in modo molto approfondito da Giovanni Torrella e Carlo Pinchi nel loro bel manuale “Il pericolo d’incendio negli aeromobili e nei propulsori aeronautici” (pp. 116-146) che causò il decesso di 55 persone.

Qui si trova una breve descrizione dell’evento incidentale; le cause attribuibili al disastro furono riferibili primariamente ad un’evacuazione carente del velivolo a terra, come appurarono le successive indagini condotte dalla prof.ssa Helen Muir del Cranfield Institute of Technology. In particolare si stabilì che, al netto dei problemi di ordine tecnico di resistenza al fuoco della fusoliera nonché di panico non gestito durante l’evacuazione, ci furono dei fattori concomitanti legati alla presenza di ostacoli al deflusso.

Vorrei ricordare a questo proposito, ove ancora non fosse ancora chiaro, che l’aereo di cui si discute, un Boeing 737-200, avendo avuto un problema di incendio ad un motore durante la fase di decollo, non si era MAI alzato in volo. I piloti abortirono la manovra in tempo e diedero immediatamente avvio alle procedure di evacuazione a bordo pista. L’aeroplano, peraltro, era dotato di tutte le certificazioni necessarie, compresa quella relativa all’evacuazione[5]. Se l’aeromobile si fosse vuotato nei 75 secondi previsti dalla certificazione non ci sarebbe stato alcun decesso.

Le cose non andarono così. Cosa non funzionò?

Come riuscì a dimostrare Helen Muir, le prove di certificazione per l’evacuazione furono condotte con modalità “non-competitive”. In altri termini il test fu realizzato con persone addestrate, collaborative e in assenza di pericolo incipiente.

L’aereo si vuotò in un battibaleno, cosa che non accadde evidentemente nella realtà. Il principale effetto che venne simulato artificialmente dalla prof.ssa Muir fu il panico che venne indotto con una strategia tutto sommato semplice, a pensarci con il “senno del poi”: pagando.

Alla prima metà delle persone che uscivano dal velivolo di prova veniva riconosciuto un bonus che invece non veniva versato a chi apparteneva al gruppo dei “lenti”.

E cosa accadde con questo stratagemma?

Esattamente QUESTO.

Inoltre lo studio appurò che aperture di evacuazione di dimensioni superiori a 30 pollici (=0,76 m) non consentono che si formino “ponti” al deflusso.

Questa misura minima delle aperture di evacuazione scoperta dal Cranfield Institute of Technology a seguito dell’incidente di Manchester (0,76 m) non è straordinariamente simile alle disposizioni specificate nelle regole tecniche verticali di prevenzione incendi italiane nonché a quanto prescritto sia nell’Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008 sia nel DM 10/03/98?

La sicurezza è UNA, a ben vedere.

Ci siamo, quindi? In luoghi ristretti e/o affollati meglio (molto meglio) che ciascuno di noi identifichi preventivamente l’uscita di emergenza più vicina.

Poi non ci pensa più e ci si gode il viaggio, la festa o il film.

Ma, in caso di emergenza, ognuno sa come comportarsi.

Una buona gestione dell’emergenza è, in fondo, un mix di comportamenti personali, comportamenti collettivi, coordinamento organizzato e strutture predisposte al deflusso.

Alla prossima!

Ciao

Marzio

PS – Vogliamo discutere di emergenza dovuta ad ATEX? Magari la prossima volta…

© Marzio Marigo

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Corso sulle novità in tema d’ATEX, le iscrizioni sono aperte, PENULTIMA CHIAMATA (le iscrizioni chiuderanno il 31/1/2018): Rischio Atmosfere Esplosive ATEX. Le novità recenti, i metodi e le applicazioni (Bologna, 23/2/2018)

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[1] Avete mai avuto l’esperienza di accedere ad un aeromobile abbastanza grande che imbarcava i passeggeri dalle scale poste su entrambe le uscite (anteriori e posteriori)? Certamente chi legge questo blog, prima di scegliere la scaletta dalla quale salire, guarderà prima il numero di prenotazione del sedile che occuperà e agirà di conseguenza. Purtroppo è sufficiente una “minima-minoranza” di persone che per arrivare al posto #5 (per esempio) si imbarchino dall’ingresso posteriore o che per raggiungere il posto #30 scelgano la porta anteriore per aumentare sensibilmente i tempi complessivi di imbarco. Facciamo ora un esperimento mentale ed immaginiamo, per un momento, l’esatto contrario: una evacuazione in emergenza del medesimo aeroplano. Con molte più persone che non sanno bene che fare, che impegnano il corridoio contromano, prese dal panico, che pretendono di portare con sé il bagaglio… Immaginato? Ecco. Fine della simulazione.

[2] Per mille e un motivo.

[3] Una specie di collasso d’onda quantistico applicato alla sicurezza nei luoghi di lavoro.

[4] Le probabilità di errore umano base stimate nel rapporto mantengono una certa validità ancora oggi (esistono tuttavia metodologie di stima dello Human Error più aggiornate). Non così le conclusioni ad esse connesse. Il rapporto WASH 1400 non rappresenta più da tempo, per molti motivi, lo stato dell’arte in tema di scienza della sicurezza industriale. Una bella trattazione della moderna teoria sulla genesi di un incidente rilevante è invece sviluppata, per esempio, dagli scienziati dei laboratori Sandia e Los Alamos nel bel testo, pubblicato da Harvard University Press, relativo all’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon.

[5] Il Boeing 737-200 venne certificato nel 1970. In 75 secondi vennero evacuati con successo 130 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio. Il limite di certificazione era di 90 secondi e venne soddisfatto.

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