L’Elisabetta Montanari, trent’anni fa

Probabilmente l’evento accaduto il 13 marzo 1987 (esattamente trent’anni fa, oggi) all’interno della motonave “Elisabetta Montanari”, in manutenzione presso il bacino di carenaggio della società MECNAVI di Ravenna, costituisce il più doloroso incidente sul lavoro della storia italiana degli ultimi 70 anni.

All’epoca dei fatti ero uno studente di scuola media superiore, lontano ancora anni luce dal mio attuale impegno/lavoro nell’ambito della sicurezza. Molto tempo dopo, approfondendo il caso, scoprii, tra i tredici deceduti nell’inferno di Ravenna, tre miei coetanei:

  • Marco Gaudenzi di 18 anni;
  • Gianni Cortini di 19 anni e al suo primo giorno di lavoro;
  • Alessandro Centioni di 21 anni.

Tale sottile filo mi ha sempre fatto ritenere ancor più catastrofico e psicologicamente traumatico questo enorme accadimento incidentale.

Di seguito riporto il sunto del verbale della Commissione istituita dall’ISPESL su incarico del Ministro della Sanità all’indomani dell’incidente.

“(…) L’infortunio plurimo mortale in cui hanno perso la vita 13 lavoratori si è verificato a bordo della nave «Elisabetta Montanari», ferma nel bacino di carenaggio della società MECNAVI, nel porto di Ravenna, per lavori di manutenzione – regolarmente autorizzati dalla Capitaneria di porto – che si stavano svolgendo e che erano stati dati in appalto dalla società armatrice della nave alla MECNAVI, la quale, a sua volta, li aveva subappaltati ad altre quattro imprese. E i lavoratori impiegati nell’attività dipendevano da tutte le predette imprese. La nave “Elisabetta Montanari”, adibita al trasporto di gas di petrolio liquefatto (GPL), era stata portata presso il cantiere MECNAVI di Ravenna per la periodica revisione così come previsto dal RINA (Registro Italiano Navale). I tecnici del RINA avevano constatato che alcune lamiere del doppiofondo della nave (sia del cielo sia del fondo) presentavano un avanzato stato di corrosione con riduzione dello spessore al di sotto dei valori consentiti. In conseguenza di ciò ne prescrivevano la rimozione e la sostituzione con lamiere nuove. Tali operazioni vengono eseguite mediante taglio ossiacetilenico delle lamiere usurate e successiva sostituzione con le nuove mediante saldatura ad arco con elettrodi rivestiti. Si precisa che il doppiofondo della nave, che presenta una altezza massima di 90 centimetri, è suddiviso da paratie sia in senso longitudinale che trasversale, così che ne risulta una serie di comparti stagni dove vengono alloggiati in successione alternata: il combustibile, necessario alla propulsione della nave, e l’acqua di zavorra. Ne consegue che, prima del taglio delle lamiere usurate e della saldatura delle nuove, i comparti destinati al contenimento della nafta devono essere bonificati al fine di eliminare il materiale infiammabile: nafta liquida residua, residui semisolidi accumulati per sedimentazione sul fondo del serbatoio e infine i vapori di ristagno. Nel cantiere in esame, come peraltro avviene abitualmente, le varie fasi di bonifica dei serbatoi del combustibile del sottofondo possono schematizzarsi come segue:

  • aspirazione mediante pompe della nafta liquida fino al limite del pescaggio che, di norma, arriva a 20 centimetri dal fondo;
  • recupero manuale del liquido residuo mediante secchi che vengono passati a mano lungo tutto il comparto fino al passo d’uomo che mette in comunicazione il doppiofondo con la stiva sovrastante e da qui portato quindi all’esterno della nave;
  • rimozione mediante stracci e raschietti del residuo semisolido aderente al fondo e allontanamento dello stesso secondo le modalità operative già viste;
  • bonifica dei serbatoi mediante ventila-zione al fine di eliminare i vapori residui.

Per quanto riguarda la fase di recupero manuale questa viene effettuata da una squadra di operai che si cala all’interno del doppiofondo raggiungendo carponi le varie zone del comparto serbatoio.

Va precisato che i comparti del doppiofondo della nave sono attraversati dalle strutture che costituiscono le costole della nave (“ordinate”) dalle centine e, nel caso specifico, dalle selle dei serbatoi GPL. Tali strutture sono superabili soltanto in alcuni punti attraverso passi d’uomo di dimensioni ridotte (40×50 centimetri), sicché l’ambiente può essere paragonato ad un dedalo di cunicoli schiacciati, distribuiti a nido d’ape, che consentono soltanto movimenti lenti, contratti, con procedura carponi, di estrema difficoltà anche per personale esperto.

Va precisato, altresì, che ogni comparto del doppiofondo della nave è in comunicazione con la sovrastante stiva solo a mezzo di un unico passo d’uomo di 40 centimetri di diametro. Attraverso lo stesso passo d’uomo viene fatto passare, durante le operazioni, il tubo per la ventilazione dell’ambiente con aria fresca.

Nel caso specifico della nave “Elisabetta Montanari”, la stiva è occupata da quattro serbatoi per il trasporto del GPL.

Tali serbatoi risultano rivestiti da uno strato di materiale coibentante costituito da cinque centimetri di schiuma poliuretanica rigida protetta all’esterno da una guaina di tela in tessuto di lana di vetro catramato.

La dislocazione dei serbatoi fa sì che la stiva presenta una serie di ostacoli “costole e selle dei serbatoi”, che rende il movimento all’interno estremamente disagevole, in particolare per quanto si riferisce al percorso che va dall’uscita del passo d’uomo del sottofondo alla scaletta che porta alla passerella della stessa stiva, percorso che dovevano compiere gli operai che entravano e uscivano dal doppiofondo.

La ricostruzione dei fatti connessi con l’incidente, formulata sulla base di quanto dichiarato dai Vigili del fuoco e dai responsabili del Cantiere, nonché di quanto evidenziato all’atto del sopralluogo, fa ritenere la seguente dinamica: all’atto dell’incidente lavoravano nel cantiere circa 40 operai, la maggior parte dei quali facenti parte di quattro ditte appaltatrici. Alcuni operai lavorano all’esterno della nave, altri all’interno, nella stiva e nel doppiofondo. In particolare tra quelli che lavoravano all’interno, alcuni procedevano alla pulizia di un comparto del doppio fondo, altri invece lavoravano nella sovrastante stiva procedendo al taglio delle lamiere del “cielo” del doppiofondo di un comparto. L’uso della fiamma ossiacetilenica per l’effettuazione di tali operazioni era stato autorizzato dalla Capitaneria di Porto, per quanto di competenza, previo controllo mediante esplosimetro di assenza di miscele esplosive e/o infiammabili.

Durante il taglio delle lamiere si è sviluppato l’incendio che ha coinvolto la guaina in tela catramata di protezione, dello strato coibentante, in poliuretano espanso, avvolto intorno ai serbatoi del trasporto di GPL (vuoti durante la manutenzione della nave). È da evidenziare che la parete del serbatoio coibentato dista appena 20 cm. dalla zona dove venivano eseguite le operazioni di taglio.

L’incendio della guaina catramosa ha portato allo sviluppo di prodotti di combustione del catrame (gas e fumi) che hanno invaso l’area della stiva e, contemporaneamente, ha alimentato la lenta combustione della schiuma poliuretanica che, a sua volta, ha portato, per fenomeni di termodegradazione, alla emissione di prodotti venefici quali: ossido di carbonio, isocianati, acido cianidrico, amine alifatiche nonché prodotti volatili di parziale combustione del materiale. L’insieme di tali fenomeni ha reso l’atmosfera irrespirabile e satura di prodotti tossici.

In queste condizioni gli operai che erano nel doppiofondo e nella stiva sono morti per asfissia e/o intossicazione dovute ad inalazioni di prodotti tossici così come rilevato dalla perizia medico-legale mentre gli operai addetti al taglio delle lamiere, ad eccezione di uno, hanno trovato scampo attraverso l’apertura praticata sul fondo della nave per facilitare l’accesso alla zona di lavoro.

Sulla base della dinamica dei fatti appare pertanto evidente una serie di assurde carenze di organizzazione e di misure di sicurezza che trovano riscontro nell’assoluta mancanza di previsione di incidenti in un luogo di lavoro dove invece ne esistevano i presupposti ed esisteva la certezza che, in caso di incidente, le conseguenze sarebbero state letali. Ciò sia in considerazione della struttura dell’ambiente di lavoro sia delle modalità operative seguite.

A tale riguardo si possono trarre una serie di considerazioni. Esistono tecnologie in grado di disincrostare e pulire i luoghi confinati mediante liquidi speciali che permettono di evitare l’opera dell’uomo in luoghi di lavoro non concepiti per attività umana. Nel caso che ciò fosse inapplicabile al caso in esame, sarebbero stati necessari una serie di interventi prevenzionistici atti a garantire la salvaguardia di chi operava all’interno della nave sia nel doppiofondo che nella stiva. Sarebbero stati da prevedere piani di lavoro che evitassero la contemporaneità di operazioni rischiose compromettenti la sicurezza delle varie squadre operanti nei diversi punti, assistenza diretta e continua dall’esterno a chi operava nel doppiofondo, vista la estrema difficoltà di movimento esistente all’interno della nave, disponibilità infine di sistemi antincendi e di mezzi personali di protezione (…)”

Il 13 marzo 1987 ebbe luogo, in Italia, una tragedia sul lavoro che non DEVE ESSERE SCORDATA. Chi dimentica i propri errori e/o non impara da questi è destinato, prima o poi, inevitabilmente a ripeterli.

© Marzio Marigo

Commento (1)

  • Rispondi massimo - 28 Novembre 2018

    scusi se ricordo anch’io quella tragedia una di quelle che ti colpiscono, ammesso e non concesso sia possibile, più di altre per il lavoro infame e che si esegue sperando finisca alla svelta e poi invece ritorna. per il comportamento infame delle persone anche dopo la tragedia. una ferita sempre aperta perché successa sottocasa dove pensi che certe cose non possano succedere.

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