Della conoscenza e delle scienze confuse

Il problema non è “sapere” le cose[1].

No, non ho mai creduto che il fatto di “sapere” semplicemente una cosa (la cosiddetta conoscenza dichiarativa) fosse particolarmente importante. 

Importante, per me, è mettere insieme i vari frammenti di realtà che ci si presentano davanti. Possiamo, per questo, utilizzare un manuale, un libro di testo nel quale uno o più autori sintetizzano con un unico filo conduttore, la fatica intellettuale di centinaia di anni. A volte di millenni. È la strada più semplice e rapida per raggiungere una conoscenza di dettaglio in uno specifico argomento.

Ma a volte questo non può essere realizzato perché, semplicemente, non si trovano “cose scritte” nell’ambito che ci interessa. 

Parlo, più specificamente, di quei settori nei quali le cose si imparano sul campo, quelle cose che conosci attraverso l’esperienza diretta e che devono essere messe in fila da te e da te soltanto per dare un “un senso a (…) cose (che) un senso non ce l’ha(nno)” (semi-cit.).

Attenzione: a volte solo a prima vista non hanno un senso.

E che devono, magari, essere narrate, spiegate a persone che non le conoscono come le conosci tu.

Il problema vero è questo.

Non è tanto il “sapere una cosa” ma il “saperla trasmettere” e il “poterla utilizzare per lavorarci e costruire”.

Se non sai trasmetterla, non sai trasferirla ad altri, non puoi dire di conoscerla[2], io credo.

Me ne accorgo quando, in azienda, cerco di comprendere il problema da chi ha certamente la visione tecnica del fatto specifico ma che, a volte, non riesce a farmela capire compiutamente.

Spesse volte i miei sopralluoghi si possono riassumere in una serie di domande, sovente sempre uguali a sé stesse, rivolte a manutentori e a tecnici di processo: “Vediamo se ho capito bene: lei mi sta dicendo che…”. Sono, in questo, insistente anche a costo di passare per il “duro di comprendonio” che sono.

Un manutentore ha dentro di sé una rilevante quantità di conoscenze tecniche ed operative che difficilmente descrive a terzi. Lui “fa”, risolve i problemi. E non è un suo compito quello di comunicare correttamente l’enormità dei fatti tecnici di ciò che conosce.

Ma è un nostro compito, parlo di specialisti in tema di sicurezza, di affidabilità, di macchine ecc., quello di cercare di “estrarre” ciò che è necessario per dare un quadro complessivo al problema e cercare di trovarne una soluzione[3].

“Capisco che ho capito” quando quello che ho “messo dentro”, in termini di conoscenza, mi restituisce più dell’insieme di partenza iniziale. Quando riesco a spiegare anche altri fatti che inizialmente non mi ero posto come obiettivo primario. E quando cose apparentemente, e inizialmente complicate e senza relazione, diventano più semplici e correlate tra loro.

Questo credo significhi comprendere il dettaglio di un impianto o di un processo produttivo: semplificare cose in apparenza complesse e saperle poi spiegare/trasferire ad altri.

Ritornando al problema iniziale (alla difficoltà cioè del “trasmettere” ad altri conoscenze e correlazioni) prendo maggior consapevolezza della questione quando sono io stesso che devo metterle insieme, agglomerarle e renderle comprensibili, magari per un corso o un seminario a tema tenuto di fronte a pari, a persone che hanno il mio stesso livello di preparazione.

Attenzione tuttavia: questo “lavorio”, che in prima istanza si fa e si destina ad altri, poi diventerà un vantaggio competitivo permanente in termini di conoscenza operativa. Correlare due fatti che inizialmente conoscevi e pensavi separati, magari con approfondimenti dati dalla letteratura tecnica, non è una semplice somma di cose ma spesso evidenzia “proprietà emergenti” delle quali, probabilmente, solo tu che ne hai messo insieme i blocchetti avrai la piena consapevolezza.

Come si comprende, questo richiede tempo. Ed è forse la caratteristica di chi intende la professione, la “nostra” professione, ancora in senso “artigianale”.

Alcuni di noi sono ancora “artigiani”.

Magari due punto zero.

Vabbè, forse non si è capito bene ciò che volevo dire.

…devo sistemarlo e rielaborarlo…

Alla prossima!

Ciao

Marzio

[1] Non discuto di quanto si studia in libri e manuali. L’autore (del libro o manuale) ha già dato una sua prima formalizzazione e narrazione del problema.

[2] Dunque, vediamo… chi già diceva questa cosa?…

[3] Ebbene sì. Chi si occupa di sicurezza non deve sono evidenziare il problema ma è tenuto, pure, a consigliare un ventaglio di possibili soluzioni. Evitando di infarcire le conclusioni dei propri report con aggettivi quali “opportuno”, “adeguato”, “idoneo”.

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Commento (1)

  • Rispondi renato - 11 Aprile 2018

    Si si, si è capito Marzio.
    Come dicevi, non ricordo se tu o Rotella, ci sono cose: che sappiamo di sapere, che sappiamo di non sapere e che NON SAPPIAMO DI SAPERE (…e poi quelle che non sappiamo di non sapere).
    Tempo…empatia….passione
    grazie, ciao, Renato.

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